LA MIA VITA PERFETTA

Ad aprile del 2021 il mio balconcino era pieno di fiori come non mai. La fioritura era perfetta. Ogni anno pubblico sui social questo evento, mi piace diffondere colore sul mondo, tuttavia quest’anno i miei pochi follower che apprezzavano quella immensa bellezza, non avrebbero avuto il loro colore. Quel mese infatti qualcosa di molto importante e profondamente triste era accaduto, qualcosa ci era piombato addosso, come una meteora a distruggere con profonda violenza la nostra “vita perfetta”.

La morte di Will fu un lutto incompreso fin da subito, un evento che mi scavò dentro e subito mi portò in un’altra dimensione, quella del non perdono.

Pèrdono, perdòno… queste parole si unirono e divennero uguali tra loro.

Alla morte di Will ha quindi seguito una serie di perdite, stavolta da me cercate: le perdite di tutto ciò e di tutti coloro erano diventati inutili. Da quel giorno, come non mai, scelsi cosa volevo davvero. Perché la vita è davvero corta caro Will, i tuoi sette anni non sono bastati né a me né a te né a nessuno di noi in questa casa, e ti cerchiamo e ti aspettiamo ancora ogni secondo in ogni angolo.

Ciò che ti ha portato via da me, quella cosa che mi ha fatto piombare in questo male oscuro, mi ha fatto comprendere che non voglio più, mai più vivere accontentandomi.

Obrelli automatici

Quando scelgo un ombrello lo scelgo rigorosamente con apertura automatica, l’evento di questo acquisto e tutte le volte a seguire che lo aprirò per utilizzarlo, sono strettamente legati alla parte tecno-buona di mio padre e strettamente legati al ricordarmi quanto eravamo poveri.

La nostra mancata ricchezza da piccola  non ci permetteva di comprare ombrelli automatici, ovvio che poi allora costassero anche molto di più di adesso. Tuttavia un giorno mio padre si presentò a casa con uno di quelli – ah beh si sicuramente vinto al gioco a qualche amico, o trovato al bar, ovviamente non comprato –

Il nostro nuovo ombrello era nero, molto elegante, l’apertura automatica era di color acciaio e lui, con pazienza, visto che ero piccolina, e con tanto orgoglio, visto che nemmeno lui era tanto grande, si mise a spiegarmi come funzionava.

Fu subito magia: già da allora la meccanica e la tecnica e il design e la bellezza e la comodità per me erano magia.

Ovviamente vedevo mia madre contrariata da questo oggetto, non mi era chiaro il perché, ma non mi interessava.

Decisi che un ombrello magico l’avrei avuto per tutta la vita. Non fu chiaramente quello, in quanto poi bho, chissà a chi passò quell’ombrello, fatto sta che sparì da casa.

Eppure, da allora, quando compro un ombrello, lo compro automatico perché mi riporta a quel senso di ricchezza che avevo provato quel giorno, quel senso di appartenenza ad un mondo normale, da me così tanto distante

Invidia

L’invidioso e l’invidiato hanno comportamenti simili tra loro e sono essi stessi, inconsapevolmente, a fomentare la situazione di disagio in cui si trovano.

L’invidioso si rode dentro perché si sente messo da parte rispetto ad un’altra persona la quale, a suo parere, viene tenuta “troppo” in considerazione. E’ questo troppo che gli fa perdere il senno. Troppo rispetto a cosa? L’invidioso non riesce a pensare quali possono essere state le fatiche dell’altra persona per arrivare al punto in cui è. L’invidioso è troppo impegnato a stare male per riconoscere la bravura della persona che invidia.

Egli si sente in una posizione svantaggiata e si confronta in continuazione con l’altro logorandosi e sentendosi vittima di una cattiva sorte che gli è toccata: avere di fianco questa persona che lo mette in ombra, che non permette la sua visibilità.

Lui si sente migliore dell’altro e vorrebbe essere considerato proprio in quella cosa lì, particolare, in cui lui sa di essere migliore.

La mancanza di umiltà, quindi, fa sì che lui non si proponga mai positivamente e che venga, alla fine della storia, semplicemente considerato come un arrivista, un invidioso, un pessimo amico o collega.

Ma anche l’invidiato si rode dentro perché si sente vittima di maltrattamenti ed escluso dal gruppo degli invidiosi (che peraltro, se ci si pensa, nessuno vorrebbe far parte di un tale gruppo).

Si sente in una posizione svantaggiata in quanto è quello che “fa tutto lui e nessuno glielo riconosce” e si sente vittima di complotti che a volte è lui stesso a creare con comportamenti assolutamente inconsci del tipo “io so fare e voi no” (cosa peraltro vera e che scatena l’invidia) e attirando così su di se la malefica sorte dell’essere invidiato.

La mancanza di umiltà fa sì che anche lui non si proponga positivamente e che venga, alla fine della storia, considerato come un arrogante, un borioso, un pessimo amico o collega.

Entrambi questi comportamenti si scatenano perché ci sono in ballo tre attori: due comparse che vogliono a tutti i costi essere riconosciute e viste rispetto all’unico protagonista che è la leadership, cioè l’attore principale (a volte il gruppo di attori principali) verso il quale le due comparse desiderano ardentemente essere visti come il più bravo rispetto all’altro proprio in quel particolare momento, infatti quale opportunità migliore di essere visti proprio nel momento in cui si sa di saper fare qualcosa bene?

Tuttavia con questo intento si fanno avanti in modo scoordinato, vanificando così ogni loro sforzo.
Il protagonista della scena se ne rende conto sempre e su questo gioca una partita infinita dove è solo lui a vincere.
Senza contare che a volte il protagonista, la leadership, è rappresentato esattamente dall’invidioso e dall’invidiato, cioè sono loro stessi la leadership su cui vorrebbero “far colpo”.

L’essere umili non si impara da un momento all’altro ma è l’unica cura a cui si devono sottoporre invidioso e invidiato, non senza una buona capacità di vedere, di riconoscere e quindi di trattare il “protagonista” – esterno o interno che sia – come colui che non li sta aiutando ma che sfrutta profondamente la situazione.

Come funziona l’umiltà? Essa si attiva quando la si vede nell’altro. Ma essere interiormente umili significa avere dentro di se la consapevolezza di essere profondamente amati da tempo. Spesso questa ferita del non sentirsi amati, visti e considerati è il solo ostacolo che non fa entrare l’umiltà.

Segnalo un interessante post sull’umiltà

Inadeguati

Passiamo la vita a cercare di farci accettare.
Passiamo la nostra vita a cercare di venire approvati, accolti. Amati.

Giorni interi, tanti, tutti o quasi, in cui misuriamo totalmente il nostro modo di essere. Lo conteniamo, lo plasmiamo. Lo adattiamo alla situazione in cui vorremmo trovarci, cerchiamo ad ogni costo di creare la situazione che desideriamo. Come accade in un film perfetto.

Momenti in cui misuriamo ogni parola. Ci voltiamo lentamente per studiare approfonditamente ogni cosa attraversi il nostro sguardo.

I nostri gesti: lenti e calcolati o veloci e performanti, presenti, precisi, perfetti. Ogni nostro gesto è un inno alla perdita del ricorsivo tormento che ci provoca il dubbio di non essere, per gli altri, all’altezza della situazione.

mamme perdute

È che non sanno cosa fare.

Sono perdute le mamme quando si avvicina l’ora della morte. Per questo negli ultimi anni di vita ti fanno impazzire. Tornano come bambine, cambiano idea in continuazione su ogni cosa. Non si lasciano fare nulla e vorrebbero che tu facessi tutto per loro.

Le mamme quando crescono troppo ribaltano completamente i ruoli. E lo fanno con prepotenza. Non ti lasciano decidere. Sei tu, ad un certo punto, a dover essere la loro mamma, mentre loro ritornano prepotentemente delle incapaci di vivere. Che senza di te mica ce la fanno!

Le mamme sono egoiste perché sanno essere le persone che ti amano di più al mondo, sempre a modo loro si sa, ma tutto quell’amore, la vita che ti hanno donato, quella follia divina che è uscire dal loro grembo e lasciarti portare via un po’ di se, prima o poi devono riscattarla. Non sono più complete le mamme se non si riprendono quel loro pezzo che tu hai ancora dentro.

E lo fanno con forza e determinazione, andando a toccare le corde che loro sanno esser per te le più dolorose.
Vanno a toccare l’amore, che tu non puoi negar loro, qualsiasi cosa sia successa durante tutta la vostra vita.

Si accovacciano lì nell’angolino e aspettano che sia tu a passare e prenderle per mano e che sia tu ad accompagnarle oltre, dove sanno, ma non vogliono accettare, che dovranno andare.

È al tempo stesso l’atto di amore e l’atto di odio più grande.
Un recupero che tu, figlia, che ti senti tanto sperduta ancora e sempre ti sentirai così finchè vivrai, non hai davvero voglia di fare.

Un ritrovamento di cose mai avute che non è davvero il momento di fare ora, mamma! E allora quando? Non lo so, mamma, penso forse si potesse fare quando avevo quattordici anni, quando soffrivo perché stavo crescendo, ma ora? Perché mi fai tornare nell’oblio della sofferenza. Ti prego non andartene. Oppure fallo con serenità. Ma hanno ragione loro. Non si riesce a finir di vivere con serenità.

Sono perdute perché vogliono ancora a tutti i costi sentire se stesse accorgersi che il loro guscio le sta abbandonando e devono imparare ad accogliere l’impotenza di non poterci fare nulla.

Per una figlia dovrebbe essere un onore accompagnarle in questo momento, ma una figlia è e rimarrà sempre tale dentro se stessa e nei confronti di una madre. Non accetterà mai questo ribaltamento di ruoli così come le viene imposto.

Una figlia in questi momenti può solo piangere e soffrire. E non sarà mai all’altezza di restituire l’amore che sua madre ha saputo darle in tutta la vita.

Viaggio a Malta – conoscenze (sconclusionati appunti di viaggio senza revisioni)

Sia all’andata che al ritorno ho viaggiato di fianco ad una 35enne molto per benino che lavora all’International School a Modena ed è andata a Malta per un corso di aggiornamento.. Ohh quante arie si dà! Tutta secca e dritta, elegante e impettita, ma gli occhi, noto, sono simpatici, traspirano gentilezza e intelligenza, oltre che cultura.

Oddio, ha parlato poco eh! ma di lei, senza che glielo abbia chiesto, ora so che viaggia molto, che è sposata, che suo fratello fa il pilota e vive all’estero, che ha la nonna sicula e adora la Sicilia, che non è rimasta favorevolmente colpita dalla bellezza dei maltesi, ma questo era da dire, perché diciamocelo, uomini e donne maltesi, proprio bellissimi non sono. Poi so che ama la Provenza e che spera di tornarci un giorno a vivere con suo marito (c’è qualcuno che ancora ha un sogno!) il quale attualmente gestisce un Caffè, mi fa capire che si tratta di un caffè elegante, of course, nel centro di Modena. Ma lei sembra non gradire molto questa attività del marito, un po’ sottotono rispetto al suo anelato stile di vita, ma questa è una mia deduzione.

Per una che avrà parlato in tutto mezz’ora e ha dormito andata e ritorno per l’intero viaggio mi sa che di lei so davvero tanto. Anche il nome!

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Al Castilla Hotel il signor Ronald, furbetto di tutto punto, vagamente assomigliante a  Ben Kingsley, ma con i capelli, è risultato, alla fine, il più particolare tra i receptionist, anche se, sapendo fare ottimamente il proprio lavoro, ovviamente non faceva completamente gli interessi del cliente, ma cercava piuttosto una mediazione che pendeva più dalla parte dell’hotel. Tuttavia “te la sapeva vendere”, si rendeva completamente disponibile a risolverti tutti i problemi, senza però esserlo affatto, e ciò lo rendeva una simpatica canaglia.

Peccato non essere riuscita a salutarlo il giorno che me ne sono andata perchè non era di turno.

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Sull’autobus nel tragitto da S. Jiulian a La Valletta, all’altezza di Slima, è salito un piccolo, elegantissimo, signore, presumo settantacinquenne. Lo si notava subito poichè la sua eleganza e la  sua compostezza anacronistica spiccava rispetto al resto dei passeggeri.

Sedutosi, dopo aver lasciato una scia di dolcissima colonia da nonno – a proposito vi ho già detto che i maltesi profumano tutti come delle…? – ha tirato fuori un fogliettino, scritto a mano, con diversi appuntamenti ed eventi mondani.. Lo ha lungamente tenuto tra le mani, forse per farlo vedere un po’ anche a me, visto che nel frattempo ero riuscita a guadagnare il sedile accanto al suo.

Naturalmente ho subito attaccato bottone perché il nonnetto m’incuriosiva alquanto. Così mi son fatta un nuovo amico, gentile e delicato, che dopo avermi lungamente parlato della storia di Slima, Floriana, La Valletta, man mano che l’autobus avanzava, mi ha raccontato che era stato invitato ad un concerto di pianoforte con rinfresco a seguire, dove ci sarebbero state le celebrità politiche più importanti del luogo, ma me lo ha detto in modo sconsolato, dicendo che avrebbe preferito andare a sentire lo spettacolo del Festival Internazionale del Coro nella piazza grande de La Valletta.

Poi é sceso con me nella piazza della fontana del Tritone e abbiamo fatto un pezzo di strada assieme fino all’imboccatura del centro città, dove, lasciandogli un biglietto da visita, l’ho salutato prendendo la seconda strada a destra in direzione del mio albergo.

Qualche minuto dopo l’arzillo signore, mi ha corso dietro, richiamandomi per invitarmi, qualora avessi avuto con me un vestito da sera, ad andare con lui. Naturalmente non avevo con me nessun vestito elegante, mi sono scusata. Lui ha ribadito dispiaciutissimo che l’abito da sera era fondamentale “era scritto anche sull’invito”, mi ha detto sconsolato, così le nostre strade si sono separate e io mi son sentita un po’ come in una fiaba triste dal finale insipido.

Tuttavia il giorno dopo, Giovanni Camilleri, questo era il suo nome, mi è venuto a cercare per salutarmi fino all’albergo, portandomi in dono due microscopiche “carte dei diritti”, due libriccini di tre centimetri per due, uno in maltese e uno in inglese, e il programma del concerto della serata passata che lui dice esser stata meravigliosa rammaricandosi ancora di non averla passata assieme.

Abbiamo passeggiato un po’ per la strada panoramica e lungo le vie attorno al mio hotel, abbiamo fatto due foto ricordo, di cui una alla fontana del cortile della Residenza del Primo Ministro, invalicabile per un turista qualsiasi, ma con lui si poteva passare poiché  John non si sognava nemmeno di mettere in conto che avrebbero potuto dirgli di no quando, con ferma gentilezza, ha chiesto di entrare per mostrarmi la fontana.

Due guardie ci hanno così pazientemente seguito con sguardo complice e accondiscendente. Una di loro è stata incaricata dal Camilleri di farci la foto, del resto come poteva dire di no anche stavolta?
Insomma Giovanni è stato il più simpatico incontro fatto a Malta, spero in una sua lunga vita e un una sua ottima salute, così da poterlo rivedere un giorno (beh siamo onesti: le probabilità sono scarse)

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Da Papannis – il nome gli e stato dato fin da piccolo perché lui chiamava così suo padre (posso ridere?) ho avuto una conversazione con un giovane finanziere americano di Washington, il quale si è premurato di tradurre, divertendosi un sacco, tutto ciò che il il figlio di Papannis non sapeva spiegarmi poiché parlava solo un rigorosissimo, strettissimo, inglese. Poi prima di andarsene il finanziere ha accettato e gradito il mio consiglio di mangiare la panna cotta come dolce ed è fuggito via. Peccato! Chissà magari un giorno una conoscenza di questo tipo avrebbe potuto fare comodo.

Da Papannis tutto, ma proprio tutto era molto buono, grazie al cuoco francese, che era poi “buono” anche lui, visto che assomigliava incredibilmente a Johnny Deep.

Basta un poco di zucchero….

Se ti dico “basta un poco di zucchero…” tu completi con “.. che la pillola va giù!” E’ naturale: è dal ’64 che ci martellano con questo ritornello. Ha fatto parte di tutti i momenti amari della nostra vita in cui stavamo male e dovevamo trangugiare qualche schifezza chimica che ci avrebbe fatto stare meglio. Perché la mamma o qualche altro illuminato parente, quando doveva curarci con una pillolina ce la cantava. Per fortuna la mia è intonata.

In questo periodo sto passando un momento amaro. Ovviamente la mamma non me la canta più perché, si può dire, son grandicella e le medicine le devo prendere da sola, ma io me la ricordo… e mi tampina la testa. Mi gironzola attorno da giorni il malefico motivetto, non faccio altro che cantarlo tra me e me, accompagnandolo, nel contempo, con una smorfia interrogativa. Il risultato è che la gente vede la mia faccia da quesito e non capisce. Ma questa è un’altra storia.

Mi interrogo perché sono approdata a questa questa profondissima 🙂 riflessione “Ma con un poco di zucchero, a pensarci bene, la pillola non va proprio giù! Anzi, come si dice a Bologna “impaluga”(*)”. Credo non  esista termine più efficace per descrivere l’effetto dell’accoppiata pillola+zucchero.

Mi chiedo, ovviamente sempre canticchiando, che cosa pensavano secondo voi Richard Morton Sherman e suo fratello Robert Bernard Sherman quando l’hanno scritta? Lo sapevate che l’hanno scritta loro? Io no, manco sapevo chi erano prima di googlare e di trovare i loro nomi. Ma mi chiedo, soprattutto, se il testo della canzone originale fosse veramente questo, o se noi italiani, come solitamente facciamo, l’ abbiamo divulgato in una traduzione orribile? Allora sono andata a vedere:

Ebbene la traduzione è fedele! E pensare che, grazie anche a questa canzone, i due fratelli nel 1965 hanno vinto l’Oscar per migliore colonna sonora! Oh Signùr! Ora, io dico, come si fa a pensare che basti un poco di zucchero? Per curarsi, amarsi, volersi bene, occorre essere sereni, credere nella medicina che si sta assumendo, sentirsi fermamente decisi a GUARIRE.

Ecco, la verità sapete qual’è? Che non è lo zucchero che fa scendere la pillola.. è la canzone! E’ l’allegria! La gioia contenuta nella coinvolgente voce di Julie Andrews, e per noi italiani, la gioia che trapela dalla soprana voce della grande Tina Centi.

Allora, per provare a curare il mio malessere, ho rivisto nuovamente il video di quel pezzo di film, e mi sono commossa, ma soprattutto mi sono chiesta: qualcuno ha mai avuto una tata così? Ah io la conosco una tata così! Non vola ma tutto il resto lo fa, ve lo garantisco! Solo che essendo una mia cara amica non posso di certo chiederle di venire a cantarmi la canzoncina!

Ecco vorrei una tata in questo momento, perché anche noi adulti, forse, per guarire abbiamo bisogno, ogni tanto, di una tata. Una tata che non è un’amica, che non è una psicologa, che non è  una nonna, o una mamma, nemmeno una sorella, ma è tutte queste cose assieme. Una tata ora mi farebbe giocare, mi farebbe sentire partecipe di un gioco allegro facendomi dimenticare che ho una sofferenza in corso.

Allora sta tutto qui? Dimenticare, distrarsi fino a non ricordarsi più il problema? Però uno non riesce da solo ad auto-distrarsi, accidenti!

Devo escogitare qualcosa.

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(*) Impalugare: Allappare, invischiare. Il giovane bolognese che estrarrà dal suo zainetto il mitico “tortino porretta” o il non meno temibile “buondì classico” (privo dell’effetto lubrificante della marmellata o della copertura di cioccolato) per la merenda si troverà irrimediabilmente impalugato e quindi bisognoso di ettolitri di liquido amalgamante. (fonte http://www.giovannigiorgi.it)

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Da Casteldebole a San Donato

Al corso di teatro lei lo aveva notato da tempo: Reemek, si fa chiamare “Reem”, carnagione scura, nato in Iraq da mamma italiana e padre iracheno,  anni 32.

Lo riteneva molto affascinante, con quei suoi lineamenti regolari e gli occhi chiari, ma con taglio asiatico, quindi particolarmente incisivi e trovava che il suo fosse uno sguardo molto profondo.

Quella sera, finito il corso lui le chiese di accompagnarlo a casa poichè era a piedi, la sua auto l’aveva prestata al cugino.
Greta, lo guardò inarcando le sopracciglia e allargando gli angoli della bocca in un atteggiamento di dispiaciuta rassegnazione. Gli disse che era venuta in scooter e che, essendo così bassa di statura, si trovava in difficoltà a caricare le persone.
Ovviamente la risposta pronta di Reem fu di non preoccuparsi: avrebbe guidato lui, spergiurandole che sarebbe andato molto piano per non terrorizzarla.

Infatti lui, molto attento a ciò che gli accadeva attorno, più volte le aveva sentito dire che aveva paura ad essere trasportata in moto da qualcuno e che si fidava solo di quando guidava lei.

Il tragitto si prospettava lunghino, pensò lei: da Casteldebole fino a Bologna, quartiere San Donato, dove abitava lui con i genitori – ma questi ragazzi non escono mai di casa? – tuttavia si fece convincere.

L’allegria di Reem, il suo sorriso disarmante che sapeva conquistare tutti, e non ultima la sua simpatia nell’indossare, dopo il casco, gli enormi occhiali da donna senza lenti che erano serviti a lei per la recitazione, bastarono a divertirla e tranquillizzarla.

E poi era finalmente con lui, cosa desiderava ancora?

Il viaggio, seduta nel retro del motorino, che a lei non piaceva affatto come posizione in quanto da lì non si vedeva nulla, inizialmente fu gradevole.
Lui portava un dolce profumo speziato e quelle spalle larghe le davano un’insolita sicurezza. Come poteva sentirsi sicura con uno sconosciuto? Ma si sa, l’imponenza fisica spesso da spazio a questi terribili errori di valutazione.
I primi trecento metri furono sereni, lei era estasiata dal profumo dell’aria che accarezzava la pelle del collo di lui e che la inebriava.
Lui, dal canto suo, non era minimamente rapito da nessuna sensazione romantica. Quello era un semplice viaggio da un capo all’altro della città, a lui conveniente e basta, non si preoccupava affatto di sentire nulla.

Tuttavia, catturato anche lui dall’aria leggera, si trovò improvvisamente nel vortice dei suoi pensieri più bui che, come scintille di memoria lontane, si facevano strada dentro al suo corpo, attraverso quella solita, terribile, sensazione di bruciore interno, proprio lì, tra la schiena e la gola.

Improvvisamente, non ricordandosi che stava trasportando proprio lei, cominciò a correre sempre più forte, alla ricerca di una libertà desiderata e mai raggiunta, e nel sentire l’irrigidirsi delle mani di Greta che affondavano sempre di più nei suoi fianchi provò un sottile piacere, perchè quel dolore alla vita era l’unico modo per non fare caso ai suoi brucianti pensieri.

Con lo scooter cominciò a correre a destra e a sinistra lungo la strada, deserta per fortuna, ma molto buia, in un pazzo slalom di terrore. Poi tornò indietro qualche metro e si rimise in carreggiata velocemente, creando delle circonferenze semplici che fecero impazzire di paura Greta, che ormai aveva compreso di essersi fortemente sbagliata a riporre fiducia nella guida di quel ragazzo che, tutto sommato, non conosceva nemmeno.

Lui nel buio del suo oblìo vide dei mostri paurosissimi, vide la sofferenza provata alla morte di suo padre, vide l’indifferenza dei suoi fratelli davanti alla guerra, vide il viaggio forzato dall’Iraq all’Italia con la mamma, vide la maestra che lo sgridava perchè non era bravo come i suoi compagni, vide il suo diploma ottenuto con il minimo dei voti e la madre che piangeva dal dispiacere, vide la sua carrirera appena iniziata e ancora molto lontana dal chiamarsi tale, vide tutto, vide l’invisibile, vide ciò che pensava che fosse e che in verità non era.

Vide ciò che tutti noi vogliamo vedere quando non vogliamo allontanarci dalla sofferenza. E vide la forza della rassegnazione che l’aveva fatto sopravvivere fino ad ora, sua acerrima nemica che però le aveva salvato la vita.

Greta, ormai ammutolita, si rese conto che doveva fare qualcosa per fermarlo, qualsiasi cosa. Nella disperazione, così sul momento, non sapeva davvero cosa fare e rischiava, senza saperlo, di venire aspirata dalla negatività di lui e dai suoi orridi pensieri, pur non conoscendoli.
Quando ad un tratto si ricordò che il meccanico, la settimana prima, le aveva installato un antifurto, un semplice, minuscolo interruttore che, spinto, scollegava il motore, serviva per dissuadere i ladri, che solitamente si sa, sono impazienti.
Allora con le mani si avvicinò al manubrio e spinse l’interruttore nascosto al di sotto del contachilometri. Il motorino di colpo si fermò.
“Che bella cosa la tecnologia e riuscire a raggirarla” pensò lei, mentre il suo cuore cominciò a calmarsi un pochino.

Reem come risvegliatosi da un brutto sogno, sentì lo scooter fermarsi piano, con un lamento di morte, rimase completamente spiazzato e ne perse il controllo. Il motorino barcollò ed entrambi si trovarono sull’asfalto, ma fu una caduta dolce e curiosamente divertente.

In quell’istante Reem si accorse che erano già arrivati a San Donato, e mentre lei si muoveva per terra come una pozzanghera la vide sorridere e di colpo dimenticò tutti i suoi cattivi pensieri.

Di colpo il buio di quell’asfalto nero fece affondare tutte le sue paure e il sorriso di lei gli riaccese la speranza di una nuova esistenza, di una vita migliore, da iniziare con fiducia e con amore.
Si guardarono in silenzio e poi lei lo abbracciò forte, come non ricordava di avere fatto mai con nessuno prima di allora.

21/03/1966 – lettera di un padre alla figlia appena nata

Certo così piccoli riuscire a dire che sono belli è dura, beh comunque senti, è il primo giorno di primavera e io la chiamerò Fiorella, mi sembra proprio il nome adatto!

Credo di essere il babbo più felice della terra; è praticamente impossibile che qualcun altro abbia provato la mia stessa sensazione. Io sono sicuramente il più felice.

Ho tanta paura perché non capisco mica cosa mi vuole dire, e sua mamma è lì che dorme stanca stanca e io non so che pesci pigliare.

A guardarle assieme sono la cosa più bella del mondo. Sto qui con le lacrime agli occhi con lei in braccio e a sorreggere la mano di mia moglie e mi incanto a guardare e a sentire ogni piega della loro pelle, cercando delle somiglianze ancora troppo lontane e trovandone delle impossibili.

Poi però penso che sicuramente assomiglia di più a me, ma so che non è vero e forse, almeno fisicamente, è proprio meglio di no, certo mica sono brutto ma la mamma è davvero tutt’un’altra cosa.

Cercare le somiglianze per noi genitori è indispensabile, è il segreto della nostra sicurezza. Abbiamo bisogno di credere che ci somigli per sentire nostro questo fagottino, se così non fosse ci sentiremmo persi, persi completamente.

Perché non è mica facile capire da dove arriva questa vita! Intendo dire non è che vederla mentre cresce nel grembo della mamma risolva tutti i nostri problemi esistenziali e ci tolga ogni grande domanda dalla mente! Anzi.. a volte uno pensa che se l’avesse comprata in un negozio sarebbe stato tutto più semplice. Un po’ come una bambolina no? Almeno ne conoscerei la provenienza.. invece nasce da una fabbrica lontana e sconosciuta, da un atto fisico che di fisico dentro di se non ha davvero nulla.

Perché il concepimento di un figlio è molto di più del materiale realizzarsi di un pensiero o di un’azione amorosa. Un figlio è il risultato della fusione di due anime in una sola, e queste due anime, per unirsi, devono arrivare al punto di fusione giusto e devono essere anche compatibili per fondersi tra loro.

Allora uno dice ma non è sempre così, a volte ci sono dei figli nati da persone che non erano poi così compatibili. Invece io penso che in quel momento lì c’era la condizione giusta, quella per la fusione vera. Quella che serve per un risultato talmente alto e stupendo come questo.

E poi questo risultato ora va accompagnato ed aiutato, sorretto per crescere e vivere, ma io la guardo e penso che è già talmente perfetta così che ho paura che un mio intervento educativo o affettivo possa solo peggiorarla.

Come può un genitore credere di essere tanto bravo da aiutare davvero un figlio? Oh certo io farò, come tutti, del mio meglio, ma come tutti finirò per volere per lei le cose che non ho avuto io e che desideravo tanto. Grande errore.

Io infatti per lei non voglio proprio niente, anzi l’unica cosa che voglio veramente è che lei ottenga ciò che lei desidera dal profondo del cuore. Che i suoi desideri non siano dettati da speranze di fare bella figura con qualcuno o ottenere un potere inutile o essere ciò che in fondo non vuole solo perché qualcun altro se lo aspetta da lei.

Penso a quante cose dovremo fare per lei e mi sento già perso.

Ma forse, poi penso, tutto si può riassumere in una sola parola: amare.

Ecco ora mi sento più tranquillo. (quanto è bella!)

Firmato Il babbo che avrei voluto

In un palazzo anni settanta

Oggi sono tornata nel luogo in cui ho abitato da quando avevo, non so, forse quattro*1, fino ai ventiquattro anni, dove il tutto è cambiato e il tutto s’è modernamente trasformato. Migliorato dicono. Migliorato è vero.

Io, prigioniera dei miei inutili e dolorosi ricordi d’infanzia, ho scavato nelle viscere del palazzo con il mio corpo, andando a rintracciare tutti gli angoli nascosti agli altri, ma a me ben noti, poichè, da piccola, ci passavo le intere giornate (essendo in centro non avevamo altro posto dove giocare).

Così, scavando scavando, ho finalmente raggiunto il palazzo d’allora.

Mi sono di colpo ritrovata nei lunghi corridoi, dove io Fiamma e Gianfry cantavamo a squarciagola “Il gatto e la Volpe”, interpretando le parti con fanciullesca convinzione, rincorrendoci all’impazzata sul linoleum rosso,  su e giù per le scale condominiali dove più volte i “grandi” ci hanno scoperti e sgridati a più non posso perchè “non si può giocare qui!”. E fuori, noi, allora, arrabbiatissimi, con le varie offese alla portinaia rompiballe.
Le stesse scale che mi hanno sentito imparare a strimpellare la chitarra e come si cantava bene lì nel vano… che tutto era amplificato!

Gli ascensori, ben due, modernissimi già allora e adesso spaziali, ancora non portano al settimo piano, quello segreto… quello dove abitavano i “signori”. Amici miei e di tutti, ma fino a che si può.

E la grande terrazza al sole che sovrasta tutto il palazzo, dove io e Annalisa per la prima volta vedemmo… beh questo, mi spiace, ma è ancora un divertentissimo segreto tra me e lei.

Ricordo ancora quante litigate con “l’Elvira”, la portinaia appunto, donna bellissima, ma della stessa eleganza di uno scaricatore di porto, del quale aveva però anche la forza e la cocciuta determinazione; un personaggio unico, come tutti i portinai del resto, e come tutti i portinai litigava con tutti. Surreale, al pensarci ora molto divertente.

Bambini, ragazzini, adulti che vorticosamente giravano attorno a me, alla mia piccola vita.

Quella vita che, come tutti del palazzo, e gli altri nel mondo, non ho mai chiesto. Quell’adolescenza che porta ferite enormi, ancora sanguinolente e marce, puzzolenti come quei corridoi, come il nostro bagno che non aveva finestre, visto che non era un’abitazione vera e propria la nostra, ma un ufficio adibito ad abitazione. Abitavo nel centro di Bologna, nella Bologna dei ricchi, ed ero più povera di una pilastrina*2.

Sempre inadeguata, dovunque mi trovassi, in quel palazzo così come nella mia vita.

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Il poeta.

Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti,
non registrati nell’ambito della visuale.
(Che non figurano nei vostri manuali,
per cui una fossa da scarico è la casa).

Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni,
quelli che restano muti: letame,
chiodo per il vostro orlo di seta!
Ne ha ribrezzo il fango sotto le ruote!

Ci sono al mondo gli apparenti – invisibili,
(il segno: màcula da lebbrosario)!
ci sono al mondo i Giobbe, che Giobbe
invidierebbe se non fosse che:

noi siamo i poeti – e rimiamo con i paria,
ma, straripando dalle rive,
noi contestiamo Dio alle Dee
e la vergine agli Dei!

Marina Ivanovna Cvetaeva

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*1 – la scrittrice non conosce la data in cui fu portata realmente in quel palazzo, che coinciderebbe con la data in cui è stata presentata al “mondo”. Non la conosce poichè quando nacque, in condizioni assolutamente sconosciute anche queste – quindi nemmeno il giorno preciso lo conosce con sicurezza – non fu subito riconosciuta dalla madre, ma solo dal padre, il quale probabilmente la tenne nascosta per i primi tre o quattro anni di vita nel paese del meridione dove lui era nato, portandola a Bologna solamente verso i tre o i quattro anni, anche se, per l’anagrafe ella è nata e vissuta a Bologna da sempre. Questi e molti altri sono i misteri della sua vita, ma non è colpa di nessuno, è andata così.

*2 – abitante del quartiere Pilastro, uno dei più poveri della città